Viva il Re!!!

C’era una volta un Re,

anzi un Viceré. E poi c’era la moglie del Viceré. Lui si chiamavo Rodrigo Ponce de Leòn duca d’Arcos mandato a Napoli con la carica di Viceré nel 1646. Lei si chiamava Ana Francisca de Cordoba y Cardona e altri 15 cognomi che lo seguì gloriosamente in quello che era considerato il più ricco dei regni spagnoli.  Ma la situazione in cui i due vennero a trovarsi non fu delle più piacevoli. Facce cupe, piccoli tumulti e un popolo povero e ribelle. Ci si poteva distrarre con le feste. Ma mica sempre erano divertenti.  Anche quella sera ce ne era una a Palazzo reale ma si prospettava noiosa come le altre soprattutto per lei. Aveva dovuto studiare l’italiano per essere all’altezza dei suoi compiti ma in quel paese si parlava il napoletano. E Ana non capiva quasi niente. 

Una violenta esplosione fece saltare in aria il casotto per la riscossione delle gabelle alla piazza del Mercato squarciando il silenzio della notte. Tutto si riempì di fumo scuro mentre il fuoco proiettava scintille rosse fino al cielo illuminando il buio.  Il vento le sospinse sempre più rarefatte verso il Palazzo Reale dove andarono a confondersi con i fuochi di artificio che il Viceré aveva ordinato per i suoi ospiti. Era sabato ed era il 29 giugno 1647. Nessuno si accorse di nulla. La musica e il brusìo delle voci eccitate sovrastò il rumore della bomba.

I saloni erano affollati di corsetti ricamati e di ampie gonne che frusciavano tra i battiti lievi dei ventagli. Intorno ai tavoli da gioco pantaloni attillati al polpaccio, giacche dai grandi colletti ricamati, gorgiere inamidate e fiocchi, fiocchi ovunque, sulle scarpe, sulle scollature, sui bordi delle maniche che si agitavano insieme ai fazzoletti di pizzo, a volta sventolati a volte branditi come un’arma. 

Il Viceré nei primi mesi del suo mandato si era dedicato al governo di Napoli con impegno, ma non aveva saputo valutare appieno la potenza della grande nobiltà e il suo compito di rappresentare la Spagna si era rivelato molto più duro del previsto. 

La moglie, con i suoi dieci figli, non aveva né il tempo né la preparazione per capire questo strano popolo apparentemente devoto che si dichiarava “fedelissimo” al sovrano di Spagna ma che mostrava continui segni di insofferenza. Una cosa però l’aveva notata. L’insofferenza non era tanto contro il Re di Spagna ma era diretta più verso i grandi e potenti nobili che gestivano la città con i loro eserciti privati e con l’arroganza di chi sa di potere tutto. E lei si ritrovava sempre in una condizione di grande imbarazzo. Le sue quotidiane relazioni erano proprio con quella grande nobiltà che era l’unica ammessa a corte e con la quale riusciva a parlare in spagnolo. Ma non aveva ancora capito di chi poteva fidarsi. Aveva ricevuto alcune volte Antonia Carafa, la moglie del Duca di Maddaloni. Credeva che una famiglia di tale lignaggio fosse devota al re di Spagna ma da qualche tempo il Viceré suo marito aveva fatto imprigionare il duca Diomede sospettato di aver dato fuoco alla nave ammiraglia della flotta spagnola. Un reato gravissimo contro la corona. Di conseguenza le era stato proibito di ricevere la moglie. Ana viveva le sue giornate tra governanti e vestiti da adattare alle nuove mode sempre più complicate. Ma da quella sera le cose non sarebbero state così semplici. Quella bomba che nessuno aveva sentito della piazza del Mercato aveva segnato l’inizio di eventi che la Viceregina non avrebbe mai immaginato. Già il giorno dopo, mentre si avviava in carrozza col Viceré verso il Duomo per la messa ebbe una strana sensazione. Una moltitudine di popolani cenciosi si era avvicinata alla carrozza. Le guardie si schierarono a protezione e i popolani arretrarono, ma la cosa strana era che non si sentiva una voce. Guardavano il Viceré, lei, la carrozza in un silenzio più grave e pesante di un tumulto. Ana aveva avuto paura. Ma poi Don Rodrigo aveva dato ordine di distribuire un po’ di monete d’oro e la folla si era allentata. Ma quegli sguardi lei non se li dimenticava. Aveva saputo che suo marito, pressato dalle richieste di denaro del Re Filippo IV era arrivato a Napoli col compito di raccogliere soldi. Era un periodo difficile per la Spagna. Da trent’anni era in guerra con mezza Europa in quella che sarebbe stata l’ultima delle guerre di religione che da più di un secolo devastavano il vecchio mondo. E gli eserciti costavano. Ma non bastava. L’enorme impero di Madrid, che andava dalla Americhe all’Europa era messo sotto scacco anche dalle rivoluzioni interne. La Catalogna, il Portogallo, stremate dalle continue imposizioni fiscali e dalle richieste di truppe per le guerre continue si erano ribellate. E anche Napoli non sembrava tanto tranquilla. Le richieste di denaro e uomini avevano reso la vita impossibile a tutti. Restava ai napoletani il piccolo privilegio di non pagare tasse su certi prodotti alimentari che venivano dalle campagne del regno, soprattutto sulla frutta e le verdure che erano gli alimenti fondamentali della magra dieta popolare, un privilegio che era diventato una specie di simbolo della benevolenza reale. 

La Viceregina non sapeva ancora però che il Viceré nell’ultima riunione con la nobiltà era stato convinto ad applicare proprio una tassa sulla frutta e per quella tassa avrebbero passato un sacco di guai.

Il sabato sera del 6 luglio lei era andata a dormire dopo la solita festa di Palazzo molto stanca, felice di non aver impegni gravosi per il giorno dopo. Ma dopo poche ore di sonno si sentì un gran trambusto. Voci, grida e le cameriere che le si precipitarono in camera con l’ordine del Viceré di vestirsi di corsa e rifugiarsi con i figli a Castel Nuovo. Ancora mezzo addormentata era stata trascinata attraverso la porta laterale del Palazzo verso la fortezza. Con i suoi passetti corti di donna appesantita riuscì a mettersi in salvo ma le notizie che man mano arrivavano non erano incoraggianti. Pare che un giovane pescivendolo, a piazza del Mercato, avesse rovesciato tutta la frutta in terra e urlasse come un pazzo che nessuno dovesse pagare tasse e ora in piedi su un tavolaccio dettava ordini per creare un corteo. E nessuno riusciva a farlo tacere: né le guardie né i nobili chiamati dal Viceré a placare le acque e nemmeno il rappresentante ufficiale del popolo. Tutti stavano rischiando la pelle per fermarlo ma nessuno ci riusciva finché un corteo si formò davvero e da pochi mercanti che erano all’inizio si formò una moltitudine. Ana, dal Castello, ne sentiva le grida e cominciò a temere per la vita del marito anche perché sapeva che Napoli non aveva un esercito. Quelle poche truppe di stanza erano state mandato poco tempo prima a Milano in aiuto dei Lombardi e lei, certo non era tranquilla da un bel po’. Quella che all’inizio le era sembrata solo una carica di grande prestigio perché Napoli era il territorio più importante dell’Impero stava diventando sempre più difficile da gestire. 

Le grida si facevano sempre più forti e sembrava provenissero proprio da Palazzo Reale. Un servitore affannato corse da lei e le raccontò che la guardia Alemanna che doveva proteggere la Corte aveva abbassato le armi e aveva consentito al popolo di entrare. Il Viceré aveva provato a gettare in terra monete d’oro ma nessuno si era chinato a raccoglierle. Costretto alla fuga era stato trascinato, non verso la fortezza ma, con l’aiuto di qualche civile, nel convento di San Luigi proprio di fronte alla Corte.  Pare che dalla finestra buttava al popolo sottostante bigliettini di promesse e solenni impegni di fare tutto quello che veniva richiesto. Ana Francisca era frastornata. Non poteva darsi pace che nessuno avesse raccolto il denaro e soprattutto non capiva cosa volesse all’improvviso la gente. Poi seppe della nuova gabella sulla frutta. Ma continuava a non capire. Perché il popolo gridava “Viva il Re muoia il malgoverno” e poi se la prendeva col rappresentante del Re a Napoli? 

A Castelnuovo cominciavano ad arrivare carrozze a piena velocità che scaricavano famiglie intere di nobili in cerca di un rifugio e poi correvano via. Finalmente qualcuno con cui poter parlare. Convocò immediatamente la nobiltà appena arrivata e si fece raccontare. Seppe che il Viceré l’avrebbe raggiunta, seppe che il cardinale della città era già in pista per mettere pace e che il popolo chiedeva non solo che levassero la tassa sulla frutta ma anche che rientrassero in funzione tutti i privilegi che la città aveva avuto addirittura da Carlo V più di un secolo prima. Per Ana Francisca era troppo. Che c’entrava Carlo V? Il bis bis bisnonno del re di Spagna? Si ritirò nelle sue stanze in attesa del marito che nottetempo arrivò finalmente. Mascherato come un lazzaro, senza parrucca e con le vesti semistracciate. Le spiegò qualcosa ma poi crollò in un sonno profondo, stremato. Solo il giorno riuscì a fargli qualche domanda. Ma le risposte erano quelle di un uomo che, come lei, non riusciva a capire non tanto il tumulto, a cui era abituato, ma la capacità organizzativa che il popolo aveva mostrato. Non era una rivolta qualunque. Doveva esserci qualcuno dietro ed era importante riuscire a scoprirlo presto. E presto si ebbero le prime notizie. Il giovanotto si chiamava Tommaso Aniello, era nato ad Amalfi ma campava la sua giornata a Napoli. Era sposato con una ragazza di nome Bernardina e pare avesse anche dei figli. Ma soprattutto si seppe che dietro al pescivendolo c’era un uomo di grande ingegno, un vecchio prete di 80 anni, Giulio Genoino, che già si era battuto contro lo strapotere della nobiltà a Napoli e che, per questo, era stato arrestato e si era fatto 20 anni di galera ad Orano in “Barbaria” cioè in Algeria. Era un uomo colto, un fine giurista, che ben conosceva sia la situazione di grave oppressione del popolo napoletano sia l’arroganza della nobiltà che manteneva minacciosi eserciti privati. Era riuscito a tornare dalla prigione e aveva ricominciato la lotta trovando in Masaniello l’uomo giusto. Un po’ guappo, maltrattato dai nobili che non gli pagavano il pesce ma molto amato dai ragazzi napoletani con cui spesso organizzava feste. Era la persona giusta per cominciare. Poi… si sarebbe visto. 

E intanto Castelnuovo si riempiva di nobili in fuga, di casse di oro e gioielli da porre in salvo, di bambini petulanti fra i piedi. La Viceregina rimpiangendo la solitudine delle prime ore, era stufa dei lamenti delle nobili signore che sotto sotto accusavano il Viceré di non saper fare il suo mestiere. E alla fine fu quasi contenta di dover obbedire alle pretese del popolo che chiedeva a gran voce che il Viceré si trasferisse di nuovo a Palazzo in segno di fiducia verso i napoletani. Assicurava, il popolo, che nessuno avrebbe toccato la famiglia reale e il duca d’Arcos cominciava a credere con preoccupazione che quel ragazzotto, quel Masaniello lì, avesse davvero il potere di garantirlo. Si trasferirono dunque di nuovo a Palazzo ed Ana Francisca assistette all’arrivo del pescivendolo a corte che si affacciò dal balcone insieme al marito e che impartiva ordini alla folla immediatamente eseguiti. Di fronte all’esibizione di tanto potere ebbe paura. Capì che era ora di muoversi e svuotò il Palazzo di tutte le cose preziose, soprattutto quelle che si era portata da Valencia. Fece fare grandi bauli con i suoi gioielli e con l’oro che di notte furono trasportati a Castel dell’Ovo, più lontano dal centro della città e protetto da cannoni. Poi sguinzagliò le sue cameriere a prendere informazioni ma le notizie che le portarono non erano buone: il popolo incendiava le case di quelli che si erano arricchiti riscuotendo tasse inique e la città era ormai sotto il comando di Masaniello. Accanto a lui stava sempre un vecchio con i capelli bianchi: Giulio Genoino che organizzava, dirigeva e faceva eseguire tutti i passi necessari per una vera rivoluzione. Non era solo povera gente quella che si riversava nelle strade urlando ma anche dottori, mercanti, insomma tutti tranne la grande nobiltà. Sembrava una situazione molto pericolosa ma un po’ di tranquillità arrivò quando si seppe che il Viceré si era già rivolto alla Spagna per avere aiuti militari. Bisognava solo prendere tempo tenendo buono il popolo e quel ragazzotto che riusciva con un gesto a spostare interi battaglioni. Scrisse anche lei qualche lettera alla sua famiglia pregando di intercedere presso il Re per un intervento immediato delle truppe spagnole. Ma intanto bisognava resistere. 

Finché non arrivò il giorno più strano della sua vita. Il Duca d’Arcos, suo marito, la convocò e le ordinò di fare la sua parte. Bisognava concordare i Capitoli, le condizioni cioè, per interrompere la rivolta ma Masaniello si rifiutava di presentarsi a Palazzo. Anzi aveva addirittura chiesto di avere in ostaggio i figli per la sua sicurezza. E Ana Francisca doveva convincere la moglie del giovanotto ad accompagnarlo con promesse e lusinghe. Per lo sgomento, appena riuscì a capire bene cosa le veniva richiesto, svenne. Comparvero immediatamente i sali e il liquorino ma il viceré fu irremovibile. Se volevano salvarsi la pelle doveva muoversi anche lei. E fu così che il 14 luglio arrivò sulla piazza del Mercato la carrozza reale a sei cavalli con la Viceregina in pompa magna che invitò Bernardina a Palazzo. La povera Bernardina non sapeva dove guardare e Masaniello era più imbarazzato di lei. Ma a lui Ana, consegnò una pergamena con la quale lo insigniva del titolo di duca di San Giovanni, e di conseguenza Bernardina diventava una duchessa. La ragazza di fronte a tanto onore alla fine accettò. Salì sulla carrozza e si avviò insieme alla Viceregina a Palazzo tra lo stupore di tutto il popolo. Arrivata nelle sue stanze Ana le regalò abiti sontuosi e gioielli e poi una borsa di monete d’oro da portare a Masaniello. Nel frattempo, eguale trattamento era stato riservato al marito che ebbe in dono un abito azzurro e d’argento e una collana d’oro di grande valore.

Ana Non vide più i due giovani. Il giorno dopo sembra che Masaniello impazzisse perché si aggirava per la città straparlando. Molti dettero la colpa a veleni spagnoli, molti dissero che si era montato la testa ma la Viceregina pensava più semplicemente che dopo 10 giorni e 10 notti passati a non dormire e a dover tenere a freno, sotto un rigido comando, migliaia di popolani, avesse avuto un crollo fisico. Lo sgomento dei rivoluzionari per questa apparente pazzia di Masaniello parve andare a tutto vantaggio del Viceré all’inizio ma il 16 luglio accadde l’irreparabile. Nella chiesa del Carmine in cui si sarebbero dovuti giurare finalmente i Capitoli Masaniello venne ucciso da un colpo di archibugio. Il suo corpo venne smembrato e portato a pezzi sulle picche in giro per la città da un popolo inferocito e che si era sentito tradito. Il mandante dell’assassinio era naturalmente il Viceré in pieno accordo col vecchio Genoino che cominciava a temere anche lui dell’enorme potere che si era conquistato Masaniello. Con grandi respiri di sollievo tutti pensarono alla conclusione del tumulto.

Ma non fu così. Qualche fornaio cretino, il giorno dopo, mise in vendita il pane ad un prezzo più alto di quello stabilito da Masaniello e il popolo si rivoltò di nuovo, stavolta sentendosi tradito dal Viceré che non aveva mantenuto i patti. Sul prezzo del pane il Duca d’Arcos non c’entrava ma la rivolta ricominciò. Il corpo di Masaniello venne ricomposto e per lui si organizzarono funerali degni di un principe. Il popolo aveva capito che il tradimento veniva dal Palazzo e il corteo funebre divenne l’occasione per un avvertimento. Il corpo di Masaniello lavato e rivestito di “lama d’argento” fu posto in una bara col bastone di capitano generale tra le mani e una spada e pennacchi nel cappello. Seguivano 1500 moschettieri “trascinando a fila l’armi et bandiere et tamburi scordati, con loro officiali e capi militari”. Si unirono più di duecento tra capitani e ufficiali e una moltitudine di migliaia di uomini e donne e ragazzini che intonavano il Rosario. Le campane della città suonarono a morto e dopo un giro per la città il feretro fu portato davanti a Palazzo dove la compagnia d’arme che era di guardia abbatté le insegne in segno di onore. Riportato nella chiesa del Carmine fu seppellito sotto il pavimento come i nobili e la gente dabbene. E con questo il popolo comunicò al Viceré e alla sua nobiltà che tutto era organizzato: Masaniello sarebbe stato vendicato e la rivolta avrebbe avuto un seguito. Lo capì anche Ana Francisca che dopo aver visto passare il grandioso funerale non ci mise un minuto a dare ordine alle sue cameriere per trasferirsi tutti di nuovo a Castel dell’Ovo continuando il suo pellegrinaggio tra un castello e l’altro. Un giorno sembrava più sicuro Castel sant’Elmo e tutta la corte ci si spostava. Il giorno seguente venne dato l’allarme che i popolari erano pronti all’attacco perché Castel Sant’Elmo conteneva le riserve di armi della città e ci si rispostava tutti di nuovo a Castelnuovo. E poi al Maschio angioino e poi di seguito. La corte sembrava impazzita agli ordini della Viceregina che trascinava la quantità infinita di figli, cortigiani, servitù da una parte all’altra della città. E finalmente arrivò la tanto attesa notizia dell’arrivo dell’armata spagnola: il 1° ottobre al largo del golfo di Napoli comparvero le prime navi. Ana Francisca finalmente respirò si quietò e fece preparare sontuosi banchetti per i comandanti delle navi. Non poteva neanche immaginare che Filippo IV re di Spagna aveva mandato addirittura il suo giovane figlio, don Giovanni d’Austria in aiuto della più importante provincia dell’impero. Appena avuta notizia di tanto onore Ana moltiplicò i preparativi. Ai banchetti si unirono nuovi abiti e gioielli, bevande speciali, sontuosi regali ma le sue aspettative andarono deluse. Don Giovanni rimase a bordo della capitana reale ormeggiata in porto e ricevette solo il Viceré che lo raggiunse su una feluca portando provviste per tutti i soldati imbarcati e grandi specialità per il figlio del Re. Il resoconto che il Duca d’Arcos fece a Don Giovanni ebbe toni melodrammatici: fu rappresentata una città in rivolta, comandata da gruppi di sediziosi che avevano, addirittura, in animo di proclamare la Repubblica. Il giovane figlio del Re di Spagna stabilì allora che l’unico modo per sedare la rivolta fosse quello delle armi e le navi cominciarono a sparare cannonate sulla città. Errore gravissimo. 

I napoletani che, incredibilmente, anche nei momenti più gravi della rivolta non avevano mai smesso di inneggiare al Re di Spagna si infuriarono. Come! Loro aspettavano giustizia e il Re li prendeva a cannonate. La rivolta si accese ancora di più e Napoli fu tutta in armi e quella parola “Repubblica” che era ancora solo sussurrata divenne un inno di libertà. Il popolo cominciò a rispondere colpo su colpo ai cannoni delle navi spesso rispedendo al mittente le stesse palle ricevute. La situazione andò degenerando al punto che il 23 ottobre, contro ogni aspettativa, venne proclamata la Repubblica di Napoli. Le diplomazie di tutta l’Europa entrarono in fibrillazione: lettere, dispacci, proposte venivano inviate e ricevute da Londra, Parigi, Madrid. Tutti erano consapevoli della gravità della situazione del Viceregno. Proprio dalla Francia sembrò arrivare un aiuto per il Viceré. Enrico II di Lorena, duca di Guisa, sbarcò a Napoli a metà novembre e Ana Francisca, ricominciò a sperare. Un nobile di tale lignaggio avrebbe potuto essere la salvezza. Ma la famiglia dei Lorena aveva sempre avuto pretese sul Regno di Napoli ed Enrico non aveva nessuna voglia di patteggiare col Viceré spagnolo. Anzi, appena arrivato cominciò a trattare coi repubblicani che avevano bisogno di un capo, possibilmente nobile, che conosceva l’arte della guerra. E Guisa, da par suo, la guerra vera cominciò a fare. Formò eserciti e battaglioni ben organizzati riuscendo a farsi accettare, dato il suo titolo, anche da quella parte della nobiltà che si riconosceva più facilmente in lui che non nei cosiddetti “pezzenti” con cui avevano dovuto confrontarsi fino ad allora. E anche se la Francia di Mazzarino non si sognò neanche da lontano di riconoscere l’azione del Duca, la guerra ricominciò ancora più violenta perché agli eserciti di Napoli si aggiunsero quelli dei casali e delle province. Tutto il Viceregno fu in rivolta, infuocato dalle truppe dei popolari decisi a farla finita con il malgoverno schierate contro quelle della nobiltà risolute a mantenere ogni privilegio. Ci andò di mezzo anche il vecchio Genoino che aveva innescato la rivolta ma non aveva mai pensato alla proclamazione di una Repubblica. Pochi giorni prima di Natale fu imbarcato verso la Spagna, ufficialmente per rappresentare la situazione al cospetto del Re, in realtà per la sua condanna. Il viaggio fu talmente lungo e compiuto con lunghe soste, fatte ad arte per non farlo mai arrivare, nelle varie coste del Mediterraneo che il vecchio giurista fiaccato nel corpo non sopravvisse. 

Mentre Genoino vagava per nave, a Napoli la situazione era sempre più grave. Ana Francisca capì, che non c’erano più speranze per loro. Stanca, dopo mesi di paure a fughe precipitose preparò di nuovo i bagagli, ma stavolta definitivamente, consapevole che il Re di Spagna non avrebbe perdonato. E l’ordine dalla Spagna arrivò. Il viceré duca d’Arcos venne destituito e al suo posto venne nominato provvisoriamente Don Giovanni d’Austria, il figlio del Viceré che poi sarebbe stato affiancato dal duca di Onate. Nel gennaio del 1648, le navi reali imbarcarono il prezioso carico formato dal Duca d’Arcos con Ana Francisca e tutti i figli. L’umore era di disperazione. Sia la moglie che il marito sapevano di aver fallito nel loro compito e che difficilmente ci sarebbe stata una fine onorevole. E così fu. Le giustificazioni del Duca davanti al Re di Spagna non ebbero alcun riscontro e, privato di ogni incarico, fu costretto a ritirarsi nel suo feudo di Marqueña. Da lì egli seppe che Napoli, dopo altri mesi di rivolta, alla fine era stata domata ed aveva chinato il capo di fronte alla forza preponderante dell’impero spagnolo.

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