C’era una volta un Re,
che non era proprio un re ma uno dei più grandi condottieri del mondo antico. Si chiamava Annibale ed era nato a Cartagine nel 247 a.C. Sin dalla prima infanzia era stato educato dal padre Amilcare all’odio contro Roma che contendeva a Cartagine il dominio del Mediterraneo. Le due città, fondate più o meno nello stesso periodo, per secoli avevano mantenuto una politica di reciproco rispetto. Governata da una oligarchia aristocratica Cartagine, Roma invece orgogliosa repubblicana ma sempre basata sul dominio del patriziato. Le due città-stato erano però diverse nella organizzazione sociale: Roma era soprattutto una comunità di guerrieri in cui il servizio militare consentiva la mobilitazione dei cittadini mentre Cartagine era una città di abili mercanti e per le sue guerre di conquista disponeva solo di eserciti che acquisiva o col denaro o con alleanze alla vigilia di ogni conflitto.
Roma, dopo numerose guerre contro le popolazioni di origine sannita era arrivata a conquistare la parte interna della penisola fino a soggiogare le città della Magna Grecia in Calabria e in Puglia, arrivando ai confini della Sicilia. Cartagine era padrona di molta parte delle coste del Mediterraneo e della penisola iberica, della Sardegna e della Corsica. Gli interessi delle due potenze erano all’inizio molto diversi. Roma puntava soprattutto ad espandere il territorio di influenza mentre Cartagine era da sempre interessata ad una espansione marittima e commerciale. Questa differenza di orientamenti permise alle due città di svilupparsi in modo parallelo senza avere particolari occasioni di scontro.
La rottura dell’equilibrio avvenne nel 264 a.C. per il controllo militare e politico della Sicilia che era posta in una posizione strategica al centro del Mediterraneo. Lo scontro nacque per il predominio sulla città di Siracusa, nodo fondamentale per il controllo delle rotte marittime attorno all’isola e vitale per i traffici commerciali di Cartagine ma anche occasione per Roma di trasformarsi anch’essa in una potenza navale. La prima guerra punica fu vinta dai romani che, non abituati alle guerre per mare, si organizzarono attrezzando le loro navi con i “corvi”, cioè passerelle mobili con cui venivano agganciate le navi nemiche. I soldati, a navi immobilizzate, poterono combattere come sulla terraferma e inflissero a Cartagine nei pressi di Milazzo una severa sconfitta. Ma il problema della presenza di due potenze tanto influenti nel Mediterraneo non era affatto risolto. Pochi anni dopo Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra e si trattò di un lunghissimo e feroce scontro che coinvolse ogni parte, anche lontana, dei territori controllati dalle due città al punto che la seconda guerra punica è stata considerata il primo conflitto mondiale dell’antichità. Ma stavolta per Roma non fu semplice come nella prima guerra contro Cartagine. Furono guai seri perché di fronte non c’era solo un esercito di mercenari ma un generale di grande valore. Annibale, educato sui campi di battaglia, ma anche un uomo colto. Conosceva bene il greco, che usava correntemente per scrivere delle sue gesta, e probabilmente aveva studiato a fondo le tattiche dei grandi capitani greci. Questa lunga e complicata guerra trasformò la marinara Cartagine in una potenza terrestre, che sfidava Roma conquistando via terra le sue città alleate ma cambiò radicalmente anche Roma che dovette diventare, una grande potenza navale in grado di intervenire rapidamente in difesa delle città stato alleate sulle coste del Mediterraneo occidentale. Annibale, nella sua “immensa” capacità strategica, appena dichiarata la guerra nel 218 a.C., concepì un imprevedibile piano di invasione dell’Italia via terra. Armato di un forte esercito composto da 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e 37 elefanti decise di conquistare Roma passando dal nord attraverso le Alpi. Percorse tutta la Spagna, alleata di Cartagine, e pose l’assedio alla città di Sagunto, alleata di Roma sulla costa meridionale ed obiettivo chiave per impedire un intervento militare di Roma nella penisola Iberica. Vinto questo famoso assedio e conquistata la città, Annibale non ebbe più problemi ad intraprendere il suo progetto di marcia contro Roma. Attraversò prima i Pirenei e poi le Alpi affrontando difficoltà straordinarie che non furono legate solo al freddo, alle impervie montagne ma anche alla necessità di difendersi continuamente dagli attacchi delle diverse popolazioni che incontrava sul suo cammino. La strada di conquista militare della penisola italiana fu tracciata in quel momento. Dopo il valico alpino le colonie romane e galliche sulla Pianura Padana diventarono un facile obiettivo per un generale abituato agli scontri in campo aperto. Da quel momento in poi si comprese quanto fosse facile aggredire la penisola da nord anziché conquistarla dalle, apparentemente, più facili coste meridionali. Quando Annibale arrivò in Italia il suo esercito era quasi dimezzato ma sempre fortissimo, al punto che riuscì subito a sconfiggere le legioni romane che lo aspettavano ai piedi delle Alpi con abili mosse strategiche a cui si ispirarono altri condottieri, tra i quali anche Napoleone. La cavalleria posta sui fianchi proteggeva la fanteria nel centro. A questa originale impostazione degli schieramenti, Annibale aggiunse gli elefanti che usò come carri armati in parte di fronte alle truppe per agevolare lo sfondamento delle linee nemiche e in parte ai lati dello schieramento che, insieme alla cavalleria, veniva protetto dagli assalti nemici. Con queste tecniche sconfisse i Romani prima sul Ticino, sul fiume Trebbia e poi, mentre con un’altra mobilitazione militare il Senato romano formava un nuovo enorme esercito che posizionava lungo quello che sembrava il prevedibile percorso verso il sud, Annibale cambiò, di colpo, strategia. Deviò il percorso verso l’Etruria alla sua sinistra e diresse il suo esercito verso il corso del Tevere dove inflisse un’altra importante sconfitta ai Romani spostando poi le sue truppe verso l’Adriatico.
L’obiettivo della deviazione era probabilmente quello di rinforzare il suo esercito spingendo alla sollevazione delle popolazioni della Puglia, della Calabria e della Campania dominate da Roma. Questa volta sbagliò i suoi calcoli perché le defezioni delle città del sud furono poche e l’obiettivo di acquisire nuove leve militari a rinforzo del suo esercito non fu raggiunto. Da solo dovette quindi affrontare altre battaglie che, anche se lo videro sempre vittorioso, indebolivano comunque la forza d’invasione mentre da Cartagine continuavano a tardare gli aiuti promessi. Alla mossa a sorpresa del generale cartaginese il Senato reagì con altrettanta genialità intuendo che il modo per sconfiggere i Cartaginesi non fosse quello di affrontarlo in battaglia ma di “consumarlo” interrompendo ogni tentativo dei cartaginesi di portare nuovi eserciti e viveri a supporto di Annibale. A Roma fu eletto un “dittatore”. Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore, che ebbe il potere necessario sia per stipulare nuovi accordi con gli alleati sia per tamponare la forza degli eserciti di Annibale. L’accorta politica di promesse e minacce contro le città della penisola e la mancanza di uno scontro diretto allungò certamente i tempi della soluzione del conflitto ma ebbe successo. Fabio Massimo spostò gli accampamenti romani su diversi altopiani degli Appennini ai quali sarebbe stato difficile arrivare sia per la cavalleria che per i fanti nemici. Osservando dall’alto le mosse di Annibale, poteva con brevi e veloci incursioni aggredirlo ai fianchi con continue operazioni di disturbo. Questi interventi tennero a lungo il generale cartaginese immobilizzato e lo costrinsero ad una politica difensiva che ebbe qualche successo. È famoso l’episodio dell’esercito punico finalmente intrappolato dalle truppe romane in una delle valli intorno al Volturno. Sembrava non ci fosse scampo e già si pensava ad una vittoria romana, ma Annibale ebbe l’idea di legare delle fascine accese alle corna di una mandria di buoi lanciati contro i romani. Nello scompiglio che si creò l’esercito cartaginese riuscì a dileguarsi.
Il mandato dittatoriale di Fabio Massimo durava sei mesi, e, onorevolmente, allo scadere del tempo il Temporeggiatore lasciò la sua carica ma nonostante la sua politica si fosse dimostrata vincente, venne accusato dal Senato di essere un incapace. Lo sostituirono due consoli: Emilio Paolo e Terenzio Varrone che avevano due strategie molto diverse. Il primo seguiva la tattiva di attendere l’iniziativa di Annibale e comportarsi seguendo la linea già tracciata da Fabio Massimo. Varrone invece cercava lo scontro frontale e aspettava ogni provocazione di Annibale per lanciarsi in battaglia aperta. I due Consoli, per una antica legge della Repubblica, avevano il comando dell’esercito a giorni alterni. E fu una ghiotta occasione per l’abilissimo Annibale che studiò a lungo le due diverse strategie fino a riuscire a cogliere la giornata in cui era al comando Varrone per riuscire a portarlo a battaglia. E ci azzeccò. Come sperava alla sua prima provocazione Varrone si lanciò in uno scontro frontale nella pianura di Canne che ebbe conseguenze drammatiche. Era il 216 a.C. e la disfatta dell’esercito romano, chiuso in una tenaglia impenetrabile dall’esercito cartaginese, fu fatale e la distruzione delle forze militari romane enorme. Si racconta che furono inviate in Campidoglio migliaia di ceste contenenti gli anelli dei cavalieri romani uccisi, il fiore dell’esercito patrizio della repubblica. Roma si sentì perduta non solo per la facilità con cui ora Annibale poteva entrare in città ma soprattutto, dopo tale sconfitta, cominciarono a crollare ad una ad una tutte quelle città alleate che fino ad allora avevano sostenuto gli eserciti romani e che si rivolsero verso il nuovo vincitore. Venne ricordata l’invasione dei Galli di Brenno, furono chiusi i templi, vietate le cerimonie funebri e il Senato dovette bandire una nuova e costosissima leva militare presso le popolazioni italiche.
Annibale vincitore poté cogliere i frutti della sua vittoria attraverso l’adesione di molte città tra cui la ricca Capua, la più antica e fedele alleata di Roma. Per la sua posizione Annibale avrebbe potuto attraverso la via Appia, arrivare in pochi giorni alle mura serviane. Ma stranamente questo non avvenne. In questa storia complicata di una guerra difficile da capire anche per le poche fonti certe che ci sono state tramandate, Annibale decise di non attaccare Roma che, dopo la disfatta, era completamente allo sbando e sarebbe stata preda facile, ma preferì fermarsi e far riposare il suo esercito esausto dopo tre anni di continui combattimenti. Si fermarono tutti e, incredibilmente, “gli ozi di Capua” durarono quasi 15 anni.
Alcuni sostengono che Annibale non si sentisse sicuro di portare l’attacco direttamente a Roma e aspettasse ancora rinforzi che continuavano ad essere bloccati dai romani (neanche Asdrubale riuscì a ricongiungersi con Annibale e anzi fu ucciso in battaglia). Altri sostengono che i soldati cartaginesi indeboliti da lussi e bagordi non fossero più così tanto arditi. Ma anche questa ipotesi non è così realistica perché in questo lungo periodo Annibale non fu immobile a Capua ma anzi portò la guerra in tutto il meridione italiano accumulando altre vittorie e soprattutto costruendo utili alleanze. In una delle sue sortite arrivò addirittura alle porte di Roma ma poi inspiegabilmente o forse conscio di non poter sostenere lo scontro con una città così fortificata, dopo un ampio bottino, se ne tornò indietro.
Roma non stava comunque ferma. Consapevole dell’enorme pericolo che rappresentava l’esercito punico alle sue porte riuscì a ricompaginare il suo esercito e con 25 legioni pose sotto assedio Capua che nel 211 a.C. cedette le armi e si arrese a Roma. La forza dei legami politici e diplomatici aveva vinto rispetto al semplice conteggio numerico della forza degli eserciti.
Con la caduta di Capua la situazione cominciò a prendere una piega diversa. Le città del sud che si erano ribellate a Roma vennero riconquistate e un nuovo console Publio Cornelio Scipione (che sarebbe stato poi chiamato Scipione l’Africano) decise di cambiare completamente strategia. Invece di continuare gli scontri sul terreno italiano spostò il fronte della guerra in Africa. Imbarcò tutte le sue truppe e, come anni prima Annibale aveva operato cercando alleanze proficue in Italia, Scipione adottò la medesima strategia alleandosi con il re della Numidia, che confinava con i territori di Cartagine, e costruendo una tela di alleanze con i popoli ostili a Cartagine. Con questa base, Roma cominciò ad inanellare una serie di vittorie trionfali finché i cartaginesi decisero di richiamare Annibale in patria. Ma anche le sue grandi capacità dovettero cedere di fronte alla furia di Scipione. A Zama, l’odierna Djama a sud di Tunisi, si combatté l’ultima battaglia africana che assicurò nel 202 a.C. la vittoria a Roma. Annibale fu costretto alla fuga e Roma impose durissime condizioni di resa. Anche in questo momento cruciale Annibale ebbe un importante ruolo. Tornato al potere a 46 anni come capo del governo inaugurò un sistema di riforme dell’amministrazione statale che incrementò le entrate fiscali della città e consentì di pagare i debiti di guerra. Ma il suo rinnovato potere fu mal visto dagli oligarchi che governavano Cartagine. Annibale venne denunciato con l’accusa di non aver fatto abbastanza in Italia per gli interessi della città. Lo accusarono per la sua lunga permanenza a Capua, ma anche per il mancato attacco contro Roma nel momento in cui era riuscito ad arrivare alle sue porte. Annibale si allontanò, allora, in volontario esilio dalla sua ingrata patria e si rifugiò prima a Tiro poi ad Efeso poi in Armenia e in Anatolia ma ovunque fu “tradito” dai governi di queste regioni fino a che in Bitinia, avendo compreso che il re stava per consegnarlo ai romani si suicidò con quel veleno che aveva sempre portato con sé. Non certo meglio andò a Scipione l’Africano. Tornato a Roma come liberatore della minaccia cartaginese e quindi attendendosi una glorificazione fu invece accusato, insieme al fratello Lucio, di essere stati dei corruttori e di aver intascato enormi somme di denaro ricevute dal re Persiano Antioco. Venne processato pubblicamente e Scipione, dopo aver strappato i libri contabili del suo esercito nel Foro e si ritirò a vita privata rinunciando a qualunque carica politica sino alla sua morte avvenuta in esilio negli stessi anni in cui Annibale, il suo nemico, moriva.
Una brutta fine per ambedue ma soprattutto per Annibale che viene universalmente considerato come il più grande generale del mondo antico e al quale viene riconosciuta ancora oggi la capacità di gestire il proprio esercito per anni in territorio ostile sostenendo battaglie frontali e infiniti scontri minori senza mezzi e aiuti dalla “patria” mantenendo unito e fedele il suo esercito e combattendo con “eguale perfezione” due tipi di guerra completamente diversi: le campagne offensive dei primi tempi e le estenuanti operazioni difensive nei lunghi anni che lo videro protagonista assoluto delle vicende della parte meridionale della penisola. Nasce con lui il mito del capo carismatico, del fondatore di nuovi orizzonti che tanta parte ebbe nell’ispirare Machiavelli nella sua meditazione sulle vicende di Roma narrate da Livio.
Annibale
